Archivi autore: Massimo Bracalenti

L’illusione della psiche

Painter Working, Reflection (1993), Lucian Freud. Photo: © The Lucian Freud Archive/Bridgeman Images

C’è una domanda che ricorre dentro e fuori la psicoterapia, a volte esplicitata, a volte lasciata trapelare con astuta disinvoltura, a volte tradotta in gesti o azioni. Perché, per conoscere la propria mente, c’è bisogno di una persona estranea ed esterna che sia un esperto della psiche, ovvero uno psicoterapeuta? Forse anche per questo Freud riteneva che curare è impossibile. Se poi si vuole un’affermazione retoricamente efficace ci si può rivolgere a Lacan: il supposto sapere dell’analista-psicoterapeuta. Oppure si può scavare un poco e trovare il presupposto della domanda: io sono la mia mente, io penso i miei pensieri, io sento le mie emozioni, dunque chi meglio di me può conoscerli? D’altronde: vivo tutto il giorno pensando, decidendo; sono responsabile di ciò che faccio e Sartre mi ha spiegato, esagerando, che sono responsabile di ogni scelta. E’ vero, di notte sono momentaneamente assente ma è perché mi sono affaticato durante il giorno e ho bisogno di riposo; infatti, non sono responsabile dei miei sogni, che sono non-sense, prodotti di scarto della mente. La mia psiche è dunque una mia proprietà esclusiva tanto che posso immaginare tutti i mondi e le realtà che voglio e viaggiare pur stando fermo. Nulla quaestiosin qui. Ma per evitare un cartesianesimo d’antan, il fiero sentimento d’essere uno, capace di controllare i propri pensieri e le proprie azioni (salvo invocare lo stress e l’obnubilamento nei casi di colpa grave), può soltanto significare essere ciò che esiste come corpo. È con il corpo che si sentono il piacere e il dolore, è con il corpo che ci si accorge di essere vivi. Se la mente, a volte, come di notte, si assenta, il corpo è sempre lì, presente, e ci accompagna fedelmente e pazientemente tutto il giorno. Quindi, chi sostiene di poter essere padrone dei suoi pensieri, chi afferma di essere sovrano conoscitore della sua mente dovrebbe affermarlo anche e con maggior ragione del suo corpo. Io sono io e sono il mio corpo con il quale ho convissuto, sin dalla nascita, ogni momento. 

Eppure, le persone, volenti o nolenti, si rivolgono ad un medico. C’è bisogno di qualcuno, altro da sé, diverso da sé, differente da sé, per risolvere i problemi sollevati dal corpo. Cioè: noi viviamo attimo dopo attimo con, in, per, attraverso, grazie a qualcosa che ci è ignoto: il nostro corpo. Perché per la psiche dovrebbe essere diverso? Eppure si pensa che sia diverso. Ho citato la medicina; eccetto che per le manovre strumentali, non si può escludere che si sia studiato così bene da essere in grado di fare a se stessi una diagnosi e prescriversi la terapia. Allo stesso modo, ammesso e non concesso che la psiche esista, studiando bene la psicologia si dovrebbe poter conoscere la propria mente e anche poterla curare. Ma ciò non è possibile, e, checché se ne dica, non è stato possibile neanche per Freud. 

Ammettiamo tuttavia, per assurdo, che gli psicoterapeuti conoscano come funziona la psiche; ammettiamo cioè che siano gli “esperti” della mente e sappiano applicare ciò che hanno appreso. Che garanzie ci sono che la psicoterapia sia una scienza come la medicina? Si risponderà che la medicina non è una scienza ma un’arte: il medico cura e Dio o la natura guariscono. In realtà, i medici e pazienti considerano la loro relazione basata su criteri scientifici, anche se di una scienza che ha perduto, per fortuna, l’illusione dell’onnipotenza. Si provi a dire a un medico o a un paziente che quel che stanno facendo è arte come la pittura, la poesia o persino la psicoterapia. Un medico è in grado di fare una diagnosi, una prognosi e decidere una terapia in base a protocolli validati dall’evidenza empirica. L’adagio comtiano: scienza donde previsione, previsione donde azione, si ritiene valere a pieno titolo in medicina. Un’amica medico ogni qualvolta si parlava, convivialmente, di temi psicologici virava decisamente su tematiche neurologiche, non senza prima essersi lamentata di sognare ogni notte i suoi pazienti più gravi. Misteri del corpo. 

Uno psicoterapeuta può fare una diagnosi e un’anamnesi, forse anche una prognosi; sorgono però subito i dubbi. Un genitore severo che picchia il figlio provoca un danno diverso da un genitore permissivo? Se sì, come e perché? Il terrore dell’omosessualità è sempre a fondamento del disturbo paranoico? Ancora, la diagnosi medica può avere un riscontro obiettivo negli esami di laboratorio; quella psicologica che basi ha? Riguardo alla prognosi i dubbi e le incertezze aumentano ancor di più. Passando alla terapia le cose vanno di male in peggio. Le terapie mediche hanno effetti tangibili e visibili, nella cattiva e nella buona sorte. Il medico fa qualcosa: con un gesto, una manovra o attraverso un farmaco. Si può dire: questo funziona, questo no, qui c’è un errore, lì non c’è nulla da fare. Si guarisce o non si guarisce con la stessa certezza con la quale si è vivi o morti. Lo psicoterapeuta cosa fa? Parla. Le parole volano: non sono cose e quando si riferiscono a non cose lo sono ancor di meno. Io, personalità, psiche, pulsioni, resistenze, persino le emozioni sono parole. Che sapore e odore ha l’angoscia? Si chiedeva provocatoriamente Bion. 

Se il terapeuta dice qualcosa o è una sua opinione o vuole educare. Nel primo caso, se è una sua opinione, non c’è ragione che sia la mia. Inoltre, come insegnano i sofisti e ripetono i loro vari e variegati epigoni il discorso più forte lo si può sempre rendere più debole. I discorsi hanno questo di bello e di terribile e sinora non è stata trovata nessuna terapia per siffatta malattia, che forse malattia non è. Cosa ne sarebbe del nostro linguaggio se perdesse la capacità di mentire o di poter dire tutto ed il contrario di tutto? Miracoli del linguaggio, della dialettica e della psiche. Nel secondo caso, se vuole educare, è perché ha imparato ciò che sta insegnando ed allora posso impararlo da solo: basta studiare. 

Infine, in medicina, come si è detto, ci sono protocolli basati sull’evidenza empirica e sulla verifica. In psicoterapia ci sono protocolli ma stanno a quelli medici come la culinaria sta alla farmacologia, per dirla con Platone. Tanto è vero che se un alieno osservasse il panorama delle psicoterapie gli sarebbe impossibile distinguerlo da quello delle religioni, dei sistemi morali e filosofici, con buona pace di Freud. Si sceglie una psicoterapia di un tipo o di un altro sulla base di un “si dice”, un consiglio, un atto di fede? 

Allora è meglio tornare al corpo e utilizzare esclusivamente i farmaci. Scelta peraltro saggia e utile che ha inoltre come vantaggio aggiuntivo di permetterci di controllare le emozioni. Bisogna però anche essere coerenti e, alla domanda con la quale si è iniziato, rispondere che colui il quale crede di conoscere i suoi pensieri e le sue emozioni si sbaglia: essi gli sono ignoti come ignoto gli è il suo corpo, perché sono essi stessi corpo e vanno considerati come tali. Di conseguenza, dovrà ammettere che i motivi del suo stare bene o male dal punto di vista psicologico gli sono tanto ignoti quanto quelli della buona salute del suo corpo. Dovrà anche ammettere che così come può non accorgersi di qualche male che sta minando il suo corpo, allo stesso modo non può sapere se qualcosa di simile stia accadendo a ciò che ora impropriamente chiama la sua mente. L’unica soluzione che gli resta è di studiare medicina e, una volta medico, curare sé stesso; nel frattempo, dovrà rivolgersi, qualora ne abbia bisogno, a un medico. Con una restrizione importante però: un medico perfettamente sano perché, dato l’assunto che la medicina permette di curare sé stessi, se non lo si fa o si è un cattivo medico o si è un medico cattivo. Ma poiché la psiche è scomparsa non ha più senso parlare di cattiveria e quindi un medico malato non è un medico.

La nave dei Feaci. La psicoterapia psicoanalitica e l’ospitalità.

Il-Sogno-di-CostantinoIl-primo-notturno-della-storia-dellarte-Leggenda-della-Vera-Croce

1.

“In ogni epoca, e nell’antichità ancor più diffusamente di oggi, i medici hanno praticato il trattamento psichico”[1]. Un trattamento che utilizza “mezzi che agiscono in primo luogo e immediatamente sulla psiche dell’uomo. Un tale mezzo è soprattutto la parola…..Il profano troverà certo difficile comprendere come disturbi patologici del corpo e della psiche possano venir eliminati attraverso le “sole” parole del medico. Egli penserà che si pretende da lui la fede nella magia. Non ha tutti i torti; le parole dei nostri discorsi quotidiani non sono altro che magia sbiadita”[2]. Per magia Freud intende quel che già Gorgia aveva messo in luce: la capacità “magica” delle parole di suscitare emozioni, di “toccare”[3] e “muovere” profondamente. Un insulto, espresso soltanto verbalmente, o il sentirsi dire “ti amo”, ha la capacità di farci infuriare o di renderci felici, anche se sembrano “soltanto” flautus vocis. “Una parola fa tanto” è l’icastico commento di una paziente. Come spesso accade in psicoanalisi – e ciò dovrebbe far riconsiderare il pregiudizio secondo il quale il paziente, per il semplice fatto che l’analista ascolta più che parlare, è soltanto colui che passivamente “patisce” -, è stata una paziente di Freud a “battezzare” la terapia psicoanalitica come “talking cure”. Tuttavia, per quanto possa sembrare paradossale – ma la paradossalità sia della psicoanalisi sia della psiche umana sarà un tema ricorrente – tradurre in parole la terapia analitica è forse impossibile. Certamente, esistono, sin dalla pubblicazione dei casi clinici di Freud, resoconti abbastanza dettagliati della terapia, sia da parte degli analisti, sia da parte dei pazienti, che però, per quanto scritti con passione e correttezza, non riescono mai ad offrire un’adeguata rappresentazione di ciò che avviene durante un incontro analitico o, ancor di più, durante un’intera analisi. Non c’è modo, sinora, di rendere tutte le sfumature delle dinamiche inconsce e preconosce che si muovono tra paziente ed analista. Sarebbe come voler togliere la differenza tra esprit de geometrie ed esprit de finisse. Ma togliere quella differenza ed appiattire le sfumature significherebbe annullare quella che è l’essenza dell’esperienza psicoanalitica. La psicoanalisi è stata per questo considerata un’arte. E forse in senso generale questo è vero. L’arte è in fin dei conti la forma di espressione umana più vicina, e più aperta, all’inconscio e che, meglio di ogni altra attività umana, riesce ad esprimere l’inconscio, perché ne ha meno paura o perché l’inconscio, attraverso l’arte, fa meno paura. La psicoanalisi è però un’arte assai particolare, giacché non si ha a che fare con colori, pietra, marmo legno, ferro ma con persone. Un’arte della parola, ma diversa dalla dialettica, dall’oratoria e dalla conversazione. Un’arte nella quale la parola è intesa come tale ma è protesa oltre i suoi significati abituali, anche oltre la grammatica e la sintassi. È forse più vicina alla poesia, sebbene ne differisca per tempi, modi ed elaborazione sia nelle ricezione sia nella produzione. Ma ciò che soprattutto distingue la psicoanalisi anche dalla poesia è che essa è una situazione emotiva e cognitiva che coinvolge in modo unico ed irripetibile due persone[4]. Al centro dell’attenzione vi sono le parole di quella singola persona, legate al suo corpo ed alle sue emozioni. La difficoltà più grande sta proprio nel trovare la migliore forma di espressione per quella particolare persona ed in quella particolare relazione. Quando ciò si realizza la cura ha luogo ovvero trova un suo spazio ed un suo tempo nella mente e nel corpo del paziente e dell’analista. Il paradosso è che si debba parlare dell’inconscio attraverso la coscienza[5] giacché, come aveva già fatto notare Freud, la coscienza, seppur incerta e contraddittoria – e menzognera – è, in ultima istanza, l’unico faro a nostra disposizione. Tale limitazione diviene molto spesso una rinuncia ad ascoltare l’inconscio e il diniego della sua pervasiva presenza. Ci si convince, per disperazione, per rassegnazione, per arroganza, che la coscienza sia tutto e che la razionalità, nel bene e nel male, sia ciò che guida gli esseri umani. Invero, il faro della coscienza è assai strano: oltre ad illuminare soltanto a tratti, a volte invece di illuminare confonde, dimentica  ciò che ha illuminato, nega che ciò che illumina è una parte e non il tutto. Nel parlare di psicoanalisi è inevitabile scontrarsi con lo stesso problema che si ha nel corso dell’analisi stessa. La psicoanalisi infatti da un lato chiede di esprimere nel modo più libero possibile emozioni, sensazioni, immagini e sogni che si affollano nella mente e che sono privati e personali, dall’altro di costruire un discorso che sia cognitivamente e affettivamente significativo[6]. Da un lato il nocciolo dell’esperienza psicoanalitica resta ineffabile ed inconscio, dall’altro il lavoro analitico è l’incessante tentativo di esprimerlo o, rovesciando la prospettiva, di facilitare la sua espressione in modi e forme che siano vitali ed evitino la distruttività. E una delle forme più evidenti di manifestazione della distruttività – auto ed etero diretta -, e quindi di negazione di ogni rapporto con l’inconscio, è l’estrema rigidità: l’assoluta convinzione di essere nella verità. Rigidità che può manifestarsi sia in modo consapevole, sia in modo inconscio, celata dietro un’apparente insicurezza. Se c’è un fine nella terapia psicoanalitica, allora esso consiste nel mettere in condizione il paziente di uscire dalla “struttura chiusa” nella quale si trova. Quella struttura è una prigione che, purtroppo, spesse volte è percepita come l’unica possibilità di esistenza. Non so se la parola libertà sia più o meno abusata, derisa, fraintesa, della parola follia, nondimeno anche per la libertà è vero ciò che diceva Freud della follia: è una questione di quantità, di gradi. Nessuno è completamente libero, ma si può essere un poco più liberi. La verità non è altrove ma è oltre, come ha affermato con espressione efficace S. Gindro.

2.

Se dunque c’è un’attività umana che pone al centro l’individuo, con la sua mente, il suo corpo, il suo mondo, le sue bugie, le sue incertezze, la sua creatività, le sue perversioni, le sue paure, le sue vergogne, questa è la psicoanalisi. Ed è la psicoanalisi che considera importanti tutti gli aspetti della vita dell’essere umano: dal lavoro al sogno, da come si veste a come fa l’amore, da come parla a come esplica i suoi bisogni fisiologici, da cosa mangia a ciò che legge, o gli odori che preferisce. Cioè quelle “banalità” che non vengono trattate nella filosofia, a teatro o al cinema ma che occupano e preoccupano gli esseri umani molto più di quanto essi stessi ammettano. Ritornando al paradosso, il fatto che la psicoanalisi sia un’arte non esclude però che sia anche una scienza.  È infatti fuorviante pensare che, in quanto arte, in essa regnino il caso e l’improvvisazione. C’è molta più precisione, coerenza e prevedibilità in analisi di quanto si possa pensare. Anzi, a volte si ha la netta impressione che l’inconscio sia strutturato in termini matematici; una matematica diversa per ogni persona e che la stessa persona ignora. Sull’altro versante: se l’analista non riesce a cogliere esattamente, nei tempi e nei modi opportuni, ciò che “è reale” nell’analizzando (nel senso di pensieri, fantasie, emozioni che si muovono tra coscienza ed inconscio, perché è questa la realtà di cui tratta la psicoanalisi), questi lo segnalerà nelle forme che gli sono proprie e che spetta all’analista cogliere. Allora la psicoanalisi è una scienza, ma assai particolare: una scienza dell’individuale[7]. Che è di nuovo paradosso. Ammesso e non concesso che sia “economicamente” sensato occuparsi di singoli individui, qual è l’utilità di una tale scienza? Pur ammettendo, per assurdo, che si possa definire scienza? Ma è qui la peculiarità della psicoanalisi: prendere sul serio (troppo sul serio?) il singolo individuo e considerare importante tutto ciò che lo riguarda. In questo senso la psicoanalisi è impolitica. “Ma lei non si annoia mai ascoltando quel che dico, le cose che ripeto?” È una delle domande che, in precise fasi dell’analisi, molti pazienti pongono: per sondare la pazienza dell’analista, come provocazione, come rassicurazione, come prova d’amore. Ebbene, no, non ci può annoiare, se l’ascolto fluttua tra l’attenzione al livello manifesto del discorso e quella particolare forma di ricezione preconscia che Bion chiama reverie. Lì, in quello spazio-tempo fluttuante, tra il sogno e la veglia, tra il dolore e gli affanni della vita quotidiana, tra il piacere e l’angoscia, si coglie la fatica del vivere della persona, nella sua irripetibile individualità.

3.

Ma la psicoanalisi è anche una “vera” scienza? Anche e forse. Lentamente la terapia psicoanalitica trova riscontri anche in studi che applicano procedure standardizzate e “scientifiche”. Invero, la ricezione della psicoanalisi ha avuto un andamento istruttivo. Essa è stata dapprima accolta nell’Olimpo della cultura ben oltre le sue più rosee aspettative e a dispetto di qualche decisa critica. L’innovazione, come insegnano gli economisti, si è poi generalizzata e la psicoanalisi è divenuta di moda. A questo punto non poteva mancare l’ultima tappa: la denigrazione e la derisione che hanno ridotto la psicoanalisi a qualche semplicistica formuletta[8], come è la versione corrente del complesso edipico. Versione che sta alla concezione freudiana come l’affermazione “tutto è relativo” sta alla teoria della relatività. Forse Freud lo aveva previsto quando, esplicitando la ferita narcisistica che l’inconscio causa, scrisse che inevitabilmente la psicoanalisi conduce all’asserzione “l’Io non è padrone in casa propria”[9]. Affermazione famosa e sottovalutata, anche nella sua paradossalità. Da un lato la psicoanalisi chiede all’individuo di aver cura di se stesso prendendo sul serio tutti i suoi pensieri, desideri, affetti; dall’altro di accettare di non essere in grado né di controllarli, né di poterli determinare, né, infine, di averne l’esclusivo possesso. La colpa della psicoanalisi è quella di aver attaccato il nucleo centrale dell’essere umano, il suo narcisismo, mettendone in luce l’illusorietà e il suo essere una disperata difesa dalla precarietà. E, soprattutto, di aver commesso questo delitto di lesa maestà non attraverso il ricorso alla morale o alla religione, ma basandosi sulle pulsioni e sull’analisi della stessa mente e della sua inscindibile relazione con il corpo. La reazione è stata quella che la psicoanalisi stessa conosce nella clinica del narcisismo: diffidenza, idealizzazione e svalutazione. Con in più il rancore per la disillusione: la psicoanalisi invece di immunizzare dal dolore, ce lo fa attraversare; invece di farci vivere spensierati, ci fa apprezzare il valore del pensiero; invece di liberarci dal lavoro, ci fa trovare il piacere nel lavoro. Oggi, si diceva, la terapia psicoanalitica comincia ad essere “provata”. Così si è visto che ha non solo effetti benefici di lungo periodo che tendono nel tempo ad aumentare[10], ma che agisce anche sull’espressione genica, sul metabolismo dei neurotrasemettitori e sulla plasticità sinaptica[11]. Queste evidenze, che alcuni non considereranno ancora risolutive per collocare la psicoanalisi nel novero delle “vere” scienze, sono un quietivo per il S. Tommaso che è in tutti noi. Restano poi insoluti altri problemi epistemologici, così come la domanda fondamentale se la psicoanalisi debba necessariamente conformarsi ad un certo modello di scienza. Sempre ammesso che tale modello esista nella realtà e non sia piuttosto un whishful thinking di scienziati e filosofi che poi, nella stanza d’analisi (quando trovano il coraggio di arrivarci; sebbene i più refrattari siano senza dubbio i politici), confessano il loro spaesamento ed i loro dubbi: come se, Kierkegaard docet, la scienza idealizzata nulla avesse da dire a loro e per loro. Perché il “ci sono più cose in cielo ed in terra…..” dell’Amleto di Shakespeare è facile da citare ma difficile da credere.  Questi studi sono tuttavia utili sia per gli psicoanalisti, sia per i pazienti. Per i primi perché, ammesso che non si difendano con l’assunto che l’inconscio riguarda gli altri ed essi ne sono immuni, possono far esperienza sulla loro pelle del dramma della crescita mentale, che non è mai indolore e lastricata di certezze. Per i secondi perché da un lato li rassicura che l’analisi non è soltanto un atto di fede o una chiacchierata, dall’altro li priva di una difesa. Infine, un’ultima osservazione. Ci sono poche cose che suscitano un’invidia così profonda e radicale quanto il buon andamento o la riuscita di un’analisi. È come se quella “congiunzione costante”[12] tra due menti, basata peraltro soltanto su parole, nel momento in cui riesce ad essere utile e fruttuosa venga considerata un bene ineguagliabile. Forse perché realizza il sogno impossibile di creare qualcosa che, come l’inconscio, c’è ma è invisibile, ci tocca e ci emoziona ma è irrappresentabile: una sorta di atto di fede nell’umanità degli esseri umani.

4.

La psicoanalisi è un’arte. La psicoanalisi è una scienza. La psicoanalisi non è né un’arte né una scienza. Si potrebbe dire che l’inconscio si fa sistematicamente beffe, con spirito dionisiaco, della psicoanalisi, dell’arte, della scienza e degli psicoanalisti, trasformando tutti in pazienti. E forse, ancora, la psicoanalisi è o può essere l’ennesima difesa dall’inconscio, come diceva Sandro Gindro. Al di là di questa bizzarra considerazione (per la verità molto meno bizzarra di quanto possa sembrare, come ben sanno gli psicanalisti più onesti[13] e come temono di riconoscere gli stessi pazienti), l’arte e la scienza della terapia si incontrano proprio nella relazione tra paziente e terapeuta. Una relazione che nella psicoanalisi ha caratteristiche uniche: per l’ascolto, per la sospensione dei modi abituali di comunicare, per ciò che l’analista dice, per quel che il paziente si consente di dire, per quel “passa” e “trapassa” tra i due. In sostanza, per il fatto che la relazione, aprendosi all’inconscio, è appunto una relazione e quindi una dinamica aperta, nella quale conscio ed inconscio, razionalità e emozioni danzano in un’incessante e vitale dialettica. “Ma non approda forse ogni scienza naturale a una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo della fisica?”[14] Così Freud si rivolgeva, con ironica provocazione, e con toni che echeggiano Platone, ad Einstein. La mitologia. Forse la più profonda somiglianza tra Platone e Freud (ed Einstein?) è nell’essere stati grandi costruttori di miti, non semplici ripetitori. Ed è al mito che voglio rivolgermi per illustrare la cura, che può essere, ed è stata, considerata un mito essa stessa. Di nuovo, è una questione di gradi e, se l’espressione non fosse svalutata, di “buon senso”, o meglio, di “buoni sensi” dato che i sensi con il loro “lato buono” ci legano a questa vita. Se la cura è intesa come palingenesi allora si ha il mito della cura. Un mito tanto affascinante quanto distruttivo: pazienti e psicoanalisti lo hanno molto spesso alimentato con la ricerca di quell’araba fenice che è la normalità. A ciò ha fatto da contrappunto un presunto “realismo” che ha considerato la psicoanalisi come un’attività per persone disadattate ed inclini all’illusione. Si tratta allora forse della di cura del mito, nel senso di curare il mito che ciascuno alberga? Anche. Ed il mito (il mito come cura e la cura del mito) al quale voglio ancora[15] rivolgermi per rappresentare la psicoanalisi è quello dell’ospitalità. Che è essa stessa un mito: il luogo mitico nel quale l’hostis diviene hospes. Ed è un luogo poetico, mitico esso stesso, ad aver immortalato l’ospitalità: l’Odissea. Ciò che avviene nell’isola dei Feaci può essere considerato come la metafora – ed il paradigma – della cura psicoanalitica, e forse di ogni cura. Odisseo è prigioniero degli eventi, di se stesso e della paura. Qualcosa che è in lui, ma anche oltre di lui, lo spinge verso la libertà. La fuga è ad un tempo una liberazione ed una catastrofe: un naufragio. Tutto sembra essere perduto e la stessa partenza dal suo rifugio-prigione sembra essere stata una maledizione. L’approdo ad un’isola sconosciuta è non solo drammatico ma anche umiliante: tutto sembra perduto e non resta che la vergogna per la propria misera nudità. Soltanto un sogno può aiutarlo: il sogno di Nusicaa. Ciò che trasforma un naufrago in un ospite è un’illusione, un gioco di seduzione? Forse. Ma soprattutto è il manifestarsi di dinamiche inconsce che sono accolte ed ospitate. C’è una responsabilità dell’analista nell’accogliere e nel rispettare il disagio del paziente e quelle dinamiche, ma c’è anche la responsabilità del paziente nel rispettare il patto dell’ospitalità. Resterà sempre sullo sfondo la tensione tra la legge incondizionata dell’ospitalità e il patto di ospitalità (la xenìa) che permette l’incontro e la relazione[16]. Ovvero tra i desideri inconsci e i limiti della coscienza e delle situazioni. Così Odisseo, come ogni paziente, non può che avanzare larvatus, nascosto da un velo che lo protegge, sino all’incontro con Aréte, Alcinoo e se stesso. Lo svelamento ed il riconoscimento avvengono comunque per gradi distendendosi in tempi che sono alternanze di crisi, serenità ed epifanie. “Strana cosa la psicoanalisi – rimuginava, in una sorta di a parte a voce alta, un analizzando – sembra non accadere nulla e poi, all’improvviso, compare un diamante, sì proprio un diamante…..Strana cosa, strana davvero”. Dapprima è una voce altra, estranea, quella dell’aedo Demodoco, a narrare la storia di Odisseo, il quale è tradito e liberato dalla sua stessa commozione. La riappropriazione della propria storia avviene attraverso le emozioni che quella stessa storia suscita nell’essere trasformata dall’altro. Un altro che lo conosce senza averlo mai visto e che mai lo vedrà (Demodoco è cieco). È sospesa qui l’equivalenza: c’ero, ho visto, dunque so. La conoscenza che l’analista offre è diversa da quella del testimone e da quella dell’anamnesi medica. Ne è diversa perché passa attraverso le diversioni dell’inconscio, ne è attraversata e trasformata. La narrazione di Demodoco è ciò che permette ad Odisseo di raccontarsi in prima persona e dunque di svelarsi ed essere riconosciuto, non senza aspri momenti di tensione, rabbia e aggressività. Riconosciuto senza essere mai stato conosciuto se non attraverso il “si dice”: la sua storia lo ha preceduto e soltanto ora essa si trasforma in una presenza in carne ed ossa. Odisseo da un lato racconta le sue disavventure e si vanta delle sue gesta, dall’altro confessa le sue angosce, le sue debolezze, le sue cattiverie e sicuramente mente a se stesso e agli altri, ripercorrendo una storia che è fatta di tanti sé. “In fin dei conti, mi sento come un condominio” osservava con serena ironia un paziente. Tutto ciò sotto la tutela attenta e benevola di Aréte e Alcinoo: i rappresentanti, divenuti pazienti e benevoli, del maschile e del femminile, del padre e della madre: da nemici ad ospiti: i genitori del figlio, il figlio dei genitori. Gli dei non sono più avversi ad Odisseo: attraverso l’esperienza del naufragio e dell’ospitalità egli ha incontrato la sua storia e questa ha cessato così di essere un sogno non sognato[17] ed egli può proseguire per la sua destinazione[18]. Il viaggio non si è mai interrotto, anche sull’isola dei Feaci: sono le navi ad essere cambiate.

“E dimmi la terra, il popolo tuo, la città, sicché ti ci portino guidate dal pensiero le navi.”[19]

Massimo Bracalenti

Note

[1] S. Freud, Trattamento psichico (1890), tr. it. in Opere Vol. I, Boringhieri, Torino 1967, p. 101.

[2] ibid.

[3] D. Quinodoz, Le parole che toccano, tr. it. Borla, Roma 2009.

[4] cfr. A. Green, Il linguaggio nella psicoanalisi, tr. it. Borla, Roma 1991; A. Green, Illusions and Disillusions of Psychoanalytic Work, Karnac, London 2011.

[5] J. A. Bargh e E. Morsella sottolineano come la tradizionale concezione per la quale mente e coscienza sono identificate sia così diffusa e radicata che i termini per designare le varie attività mentali sono sempre una modificazione del termine coscienza, come nel caso dell’inconscio. J. A. Bargh e E. Morsella, The Uncoscious Mind, Perspect Psychol Sci. 2008 Jan; 3(1): 73–79.

[6] A. Philipps osserva icasticamente, e con ironia, che sebbene la psicoanalisi riguardi l’inconscio, gli psicoanalisti sembrano essere troppo “consci” di ciò che fanno. A. Philipps, Foreword, in C. Bollas, A. Jemstedt, The Christopher Bollas Reader, Routledge,Hove 2011.

[7] P. Caws, Psychoanalysis as the Idiosyncratic Science of the Individual Subject, Psychoanalytic Psychology, 2003, 20: 618-634.

[8] È quella resistenza alla psicanalisi per la quale essa, usando l’efficace espressione di Derrida, è considerata “un medicinale scaduto nel fondo di una farmacia” con la ferma convinzione che “C’è di meglio”. J. Derrida, Résistances de la psychanalyse, Galilée, Paris 1996.

[9] S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, (1916), tr. it. in Opere Vol. VIII, Boringhieri Torino 1976, p. 663.

[10] J. Shedler cit. in A.N. Schore, The Science and the Art of Psychotherapy, Norton, New York – London 2012.

[11] R. M. Glass, Psychodynamic Psychotherapy and Research Evidence. Bambi survives Gozilla?, JAMA, 2008: 300(13), 1587-1589.

[12] cfr. W. Bion, Attenzione ed interpretazione, tr. it. Armando, Roma 1973.

[13] Cfr. H. Searles, Il controtransfert, tr. it. Boringhieri, Torino 1994. Ma credo che Freud sia incomprensibile senza utilizzare anche questo rovesciamento di prospettiva.

[14] S. Freud, Perché la guerra?, (1932), Opere Vol. XI, Boringhieri, Torino 1979, p. 300.

[15] M. Bracalenti, L’ascolto e la neutralità terapeutica , in: AA.VV., Da inconscio a inconscio, Guida, Napoli 1994.

[16] J.Derrida, Sull’ospitalità, tr. it. Baldini e Castoldi, Milano 2000.

[17] Cfr. W. Bion, Apprendere dall’esperienza, tr. it. Armando, Roma 1996; T. Ogden, L’arte della psicoanalisi, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2008.

[18] Cfr. la distinzione tra Fato e Destino in: C. Bollas, Forze del destino, tr. it. Borla, Roma 1992.

[19] Omero, Odissea, lib. VIII, vv. 555-556, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1979.